Questa è una famiglia che non vuole le mani altrui per fare le cose, siamo tutti fatti allo stesso modo! Duri de capòccia, tignusi come si dice a Pitrió mmia!
Allora sappiamo ingegnarci a modo nostro con le nostre semplici cose che ci circondano. Mica cerchiamo la vip o il vip di turno!
Un cerchio, i fogli di giornale, lo scottex bianco, il tulle comprato su Amazon, quello si estraneo al nostro ambiente casereccio, le spighe di grano ed il fiocchetto blu dell’altro matrimonio, quello di Serena! La ghirlanda porta fortuna per Riccardo e Josephin di casa Natali e Natali eccola qua!
Tanto del diman non c’è certezza ed il resto è noia! Però mi manca, come mi manca accidenti! La notte poi…….
La cena era semplicissima. “La fava ‘ngréccia”; cioè fava lessata a mezza cottura e condita con maggiorana, olio, aceto, sale e aglio. Se poi vi si univano sardelle, allora era chiamato “lu cuticusu” di cui i paesani erano ghiottissimi.
Da costumanze marchigiane di Giovanni Ginobili poeta dialettale di Petriolo
Il mio ricordo oggi va ai miei genitori, ieri era il compleanno di babbo ed oggi sono 20 anni che mia madre se n’è andata. Babbo era il presidente dei combattenti e reduci della sezione di Petriolo, lui stesso preparava “lu cuticusu”, quando il due novembre si festeggiavano i morti. La fava ‘ngréccia, a ricordo della tradizione di sgranocchiare le fave dei morti. Il cuticusu oggi è in versione primaverile, le fave sbollentate in acqua bollente ed aceto con il sale, fatte freddare e condite come vuole la tradizione. Tonno, alici, aceto ed olio extravergine di oliva, “mindùccia”, mentuccia, maggiorana, timo, santoreggia, salvia, aglio che io non posso mangiare e peperoncino. Questo è un piatto povero, saporito e gustoso. Per poterlo preparare nelle stagioni quando non è tempo di fave, io le ho conservate sotto aceto, sterilizzate e surgelate appena sbollentate.
Ricordiamoci sempre di portare a tavola le nostre ricette, quelle della tradizione per non dimenticarle!
Io so giugno che mèto lo grano, mèto col sole li monti e lo piano; mèto li campi buttando sudore, tra l’altri mesi me sendo mijore.
I contadini, ricoperti da larghi cappelli di paglia, nell’allegria più serena, cantano belle stornellate, cantano a tenzone, lanciando al vento le canzoni tipiche della mietitura; popolano i campi d’oro!
La notte che precede l’Ascensione, si raccolgono le rose più belle del giardino. Chi ne ha tante, ne regala a chi non ne ha. Si preparano delle brocche piene d’acqua, vi si immergono i petali, magari con qualche spighetta profumata di lavanda e di menta, si lasciano fuori nei balconi, nei davanzali e nei giardini in omaggio a Gesù che quando al sorgere del sole attratto dal profumo di mille petali di rose immersi nell’acqua, prima di ascendere al Cielo, le benedice insieme agli abitanti della casa.
La notte scende dal cielo come benedizione e porta l’abbondanza sui campi di grano.
La mattina, quell’acqua profumata e benedetta, serve agli abitanti della casa per bagnarsi il viso, ricevendo la benedizione di Gesù.
In questo giorno viene raccolto l’assenzio; con quest’erba gli uomini ornano i loro cappelli e le donne li appuntano sul loro petto.
Una tradizione popolare vuole che il giorno dell’Ascesa di Cristo Redentore, nemmeno i pulcini escano dall’uovo, anche se sia ora che nascano; tanto è il dovere che si ha in questo giorno, di non compiere opera alcuna.
La festa cadendo nel giovedì che segue la quinta domenica dopo Pasqua, è festa mobile e in alcune nazioni cattoliche è festa di precetto, riconosciuta nel calendario civile a tutti gli effetti.
Purtroppo in Italia previo accordo con lo Stato Italiano, che richiedeva una riforma delle festività, per eliminare alcuni ponti festivi, la Conferenza episcopale italiana ha fissato la festa liturgica e civile, nella domenica successiva ai canonici 40 giorni dopo Pasqua.
Polentone a buttar giù; lo preparano fornaciai ed altri artigiani che, impegnati nel lavoro fuori di casa, non hanno tempo di mescolarlo adagio adagio. Mettono nel paiuolo prima acqua e sopra farina gialla; nel mezzo fanno un bel buco, l’acqua vi penetra e scaldandosi e bollendo si cuoce anche la farina che, a mano a mano, dai lati del buco praticato cede. Quando il polentone è quasi cotto, vi cacciano il condimento così ottengono «<lu pulendo’ a buttà ‘-gghjó cunnitu dréndo», la polenta condita dentro.
Da costumanzemarchigiane di Giovanni Ginobili maestro e maestro dialettale a Petriolo provincia di Macerata
Nei tempi antichi quando non c’era un granché da portare in tavola per sfamare la famiglia numerosa, la polenta era un pasto sostanzioso e completo specialmente se si condiva con gli ingredienti di stagione. In inverno il maiale, nelle vigilie rispettate con lo stoccafisso o le aringhe, in primavera i legumi e specialmente le fave insaporite con la pancetta o la barbàja ( il guanciale). Le fave si aggiungevano a fine cottura della polenta in modo da insaporirla insieme ad una buona spolverata di pepe e pecorino secco, questo era l’unico formaggio che non mancava mai nelle case povere e ricche.
La polenta con le fave deve essere fatta abbastanza soda, per il condimento, si mettono a cuocere nell’olio extravergine di oliva la cipolla, il lardo, la pancetta a cubetti , le fave, sale e pepe fino alla completa cottura aggiungendo un po’ di acqua calda se si asciuga tutto troppo in fretta.
Alla fine della cottura della polenta, unire dentro le fave, il pecorino grattugiato, mescolando bene per farla insaporire, versare sulla spianatoia o nei piatti individuali unendo un filo di olio extravergine prima di versaci la polenta. Un’altra spolverata di pecorino e due foglie di rucola per profumare tutto.
Il piatto antico e semplice è pronto e a presto, alle scimmie piacendo, certo che fanno schifo questi che stanno parlando ora del vaiolo….non bastava l’altra pandemia miei cari? No ehhhhh? 👿
Ecco magghiu ch’è vinuto, è tre dì che l’ho saputo; l’ho saputo per viagghiu, fora aprile e dendro magghiu. Candà màgghju, la notte fra la fine di aprile ed il primo di maggio, quando si andava a cantar d’amore sotto le finestre delle forosette.
C’era una volta la festa del patrono di Petriolo, s. Marco, c’erano la festa patronale e quella religiosa, c’era il giorno della Cresima con il vescovo che arrivava da Fermo sempre in ritardo come un principe.
C’erano le bancarelle di abbigliamento, di casalinghi, di formaggi e di salumi, di frutta fresca e secca con “le téche marine”, le carrube e le verdure con le primizie della primavera.
C’erano quelle di musicassette e di dischi, di bigiotteria, di scarpe e borse, di pesciolini e di palloncini.
C’era “Lu maccaronà” grande amico di mio padre, che veniva dalla macina di Mogliano, con “lu vàngu” il banco di mobili di vimini e di giunco ed i casalinghi, ferramenta ed oggetti in ferro battuto.
C’erano le bancarelle di fiori ed ortaggi da trapiantare, dopo la festa di s. Marco si mettevano in terreno i pomodori.
C’erano la zingara che leggeva la mano e l’omino con l’organetto, con il foglietto della fortuna, c’era la giostra con il tiro a segno, c’era l’odore di porchetta di Attilio “lu macellà”.
C’erano le corse dei bambini su e giù per le bancarelle per la frenesia e l’indecisione di scegliersi il giocattolo più bello e moderno.
C’erano i negozi e le vie del paese piene di gente, di odori e di suoni.
Non c’è più niente! Nemmeno un miracolo potrebbe riportare in vita l’intero paese ed il resto è noia!
“Leggetela. É bellissima”* Un contadino stanco della solita routine quotidiana, tra campi e duro lavoro, decise di vendere la sua tenuta… Dovendo scrivere il cartello per la vendita decise di chiedere aiuto al suo vicino che possedeva delle doti poetiche innate… Il romantico vicino accettò volentieri e scrisse per lui un cartello che diceva: “VENDO un pezzettino di cielo, adornato da bellissimi fiori e verdi alberi, con un fiume dall’acqua così pura e dal colore così cristallino che abbiate mai visto…” Fatto cio’, il poeta dovette assentarsi per un pò di tempo, al suo rientro però, decise di andare a conoscere il suo nuovo vicino. La sua sorpresa fu immensa nel vedere il solito contadino impegnato nei suoi lavori agricoli.
Il Poeta quindi domandò: “Amico non sei andato via dalla tua tenuta?” Il contadino rispose sorridendo: “No, mio caro vicino, dopo aver letto il cartello che avevi scritto, ho capito che possedevo il pezzo più bello della terra e che non ne avrei trovato un altro migliore.” ✨ Morale della favola. Non aspettare che arrivi un poeta per farti un cartello che ti dica quanto è meraviglosa la tua vita, la tua casa, la tua famiglia e tutto ciò che possiedi… Ringrazia sempre per la salute che hai, per la vita che vivi, per la caparbietà che hai nel lottare per andare avanti… Apprezza questo pezzettino di cielo che è la tua VITA. Il tuo risveglio al mattino è la parte migliore, “ALZATI, hai un’altra OPPORTUNITÀ” ❤ Nasciamo per essere felici “NON PER ESSERE PERFETTI” I giorni buoni ti danno LA FELICITÀ I giorni cattivi ti danno L’ESPERIENZA I tentativi ti mantengono FORTE Le prove ti mantengono UMANO Le cadute ti mantengono UMILE Non lo so chi l’abbia scritta ma è bella semplice e vera, da condividere come un pezzettino di gioia. 🍀🍀
Questo per far capire che anche in un orto giardino scapigliato, si può trovare un pezzo di gioia! Il gelsomino marzolino bianco e rosa, profuma già tanto, però mi sembra di trovarmi al camposanto.
Le uova in questa ricorrenza avevano, come oggi hanno, gran parte uso, anzi un detto popolare dice che le galline di questo tempo, anche le più restie, sono generose.
‘Gni trista pollastra
fa l’oê de Pasqua
E l’uovo pinto furoreggiava; non
quello di cioccolato affatto sconosciuto. Le uova si dipingevano avvolgendole di
verde e fiorellini sul guscio, ricoperti poi di un velo di cipolla, che dava il colore giallo,
e di carta colorata perché dei fiori e delle foglie ne restasse l’impronta; il tutto veniva
ricoperto di ritaghi di stoffa; così imbacuccato l’uovo veniva messo a bollire nell’acqua.
Con le uova pinte la mattina di
Pasqua si giocava a “pizzetta o come altrove si diceva « a scoccetta»: tale gioco consisteva nel picchiare pizzo contro pizzo dell’uovo o fianco contro fianco; l’uovo che prima cedeva era perso e andava in possesso di colui che possedeva l’uovo più resistente,
Spesso si ricorreva ad inganni,
avendo uova di pietra perfettamente imitate; ciò dava luogo a baruffe.
Altro giuoco era quello di lanciare da determinato luogo in pendenza, alla stessa altezza, due uova; quello che prima raggiungeva la mèta era vincitore.
Ma dove la Pasqua maggiormente trovava la sua affermazione era nella mensa. Tre erano i giorni di festa e in questo tempo si servivano pietanze e dolci fuori dell’ordinario. Era forse una necessità del corpo (sottomesso a digiuni severissimi durante la Quaresima) che bramava un po’ rifarsi dopo tanta lunga astinenza,
Dava, dirò così, il tono alla ricorrenza Pasquale l’agnello, l’uovo e il formaggio, che poi avevano il predominio nel desco popolare.
I campagnoli tenevano assai a far colazione, la mattina di Pasqua, con la coratella dell’agnello e le uova; era una specie di devozione. A desinare si incominciava, cosa insolita dall’antipasto, si finiva il vecchio salato e si assaggiava il nuovo, indi tagliolini di casa in brodo ovvero minestra di fette di pane indorate con le uova battute, cosparse abbondantemente di formaggio inzuppate nel brodo di gallina. Nota mia, mia madre era solita farla questa minestra preferendola ai cappelletti fatti in casa. L’agnello variamente preparato era il piatto prelibato e simbolico della mensa Pasquale;
altra portata di prammatica era la frittata di uova con la mentuccia così nel paesello Petriolo: a Macerata usava la frittata con « l’erba dell’oe », come la chiamavano, che poi era la borragine.
Fra i dolci il posto d’onore avevano le ciambelle, ma erano fatte di pasta e uova, quindi non proprio dolci; la palomba pasquale (palomma), a Petriolo « lu rocciu» fatto di pasta di ciambelle, intrecciato come corda. Le pizze profumate di formaggio avevano grande nome fra le ghiottonerie della Pasqua, così i « piconi » con la ricotta.
Nella seconda festa si costuma (andare a parenti) si andava cioè a trovare i congiunti recando loro pizza, ciambelle, piconi, salato ed altro; ciò avveniva nel pomeriggio; molti però andavano a trascorrere con loro l’intera giornata.
La terza festa era far merenda in campagna spesso e volentieri in una località prestabilita dove s’adunava tutta la popolazione A Macerata, ancor oggi, si costuma recarsi alle “Vergini”.
Quest’ usanza trae la sua origine dall’evangelico fatto quando Gesù, il terzo giorno dopo la sua resurrezione, sotto le sembianze di umile pellegrino, andando da Gerusalemme ad Emmaus, s’incontrò con due dei suoi discepoli e con loro fino al paesello ove fu loro gradito ospite della modesta mensa della sera.
Così i nostri avi vollero rievocare l’apparizione di Emmaus e il sedersi ancora una volta accanto agli uomini per consumare il dono del pane.
Ma il merendare di ieri e di oggi, non ha alcunché di raccolto o di religioso; è una gita villereccia piena di lecite distrazioni che ha più sapore di profano che di sacro.
Spesso, al calar della sera, dopo consumata allegramente la merenda, si dava inizio al suono degli organetti e si allacciava un furioso saltarello. Era l‘epilogo della festa campestre.
Da costumanze marchigiane di Giovanni Ginobili maestro e poeta di Petriolo Macerata Marche
Il sabato santo recava la gioia della resurrezione. Si scioglievano le campane che suonavano tutte, a distesa, e allora i bambini per i prati e dovunque si trovassero facevano capitomboli (cutulozzi). Dice una tradizione popolare che ciò facesse bene contro i dolori di ventre. Le mamme facevano far capitomboli anche ai più piccini perché un’antica credenza popolare diceva che sarebbero andati soli assai prima; non solo, ma il sabato santo al suono d’allegrezza delle campane, ai piccoli in fasce venivano ” cavati i piedi. In questo giorno i campagnoli seminavano (anche se non faceva luna) ogni specie di verdure, cosi i giardinieri nei giardini, qualsiasi fiore; la risurrezione di Cristo dà vita ad ogni essere. Guai, però, se fossero nati i pulcini durante la settimana santa fino al sabato; sarebbero stati tanto cattivi. Nel pomeriggio di questo giorno il prete, andava a benedir le case; recava pace alla casa ed ai suoi abitatori. Allora si faceva trovare la mensa imbandita di tutti quelli che dovevano essere i doni che avrebbero rallegrato le famiglie il giorno santo della Pasqua, perché il sacerdote tutto benedicesse. E sulla mensa appariva il tradizionale agnello, uova pinte, i dolci di occasione: ciambelle fatte di uova e farine,pizze di formaggio o dolci, la palomba, in alcuni luoghi lu rocciu fatto della stessa pasta delle ciambelle, che era il dono preferito de fangiulli. Nulla però si toccava quel giorno. *La domenica di resurrezione, la Pasqua, che dava adito a mille nuove e significative consuetudini popolari tutte belle e piene di poesia, la ricorrenza del trionfo di Cristo sulla morte, e nessuno potrà mai ridire quanto fosse attesa da tutti, specie dai più piccini, metteva fine all’astinenza e al digiuno tanto rigorosamente osservati. Ancor oggi si conservano e si osservano molte delle consuetudini descritte, ma, a poco a poco, sempre più si vanno pardendo, Non andrà a lungo che quello che fu la millenaria, bella e singolare tradizione di ogni nostra regione, finirà per scomparire totalmente. Allora sarà cero ai posteri poterle conoscere attraverso gli scritti.
Tratto da Costumanze Marchigiane di Giovanni Ginobili maestro e poeta di Petriolo