mistrà

Cicerchjàta (cicerchiata)

Noi abbiamo fatto festa con la nostra cicerchiatacup 👌

Le origini della cicerchjàta non sono chiare: c’è chi sostiene che sia nata in Abruzzo, in particolare nell’area del Sangro, famosa per la produzione di miele, mentre altri ne attribuiscono la nascita in tempi ancora più lontani, nelle terre a confine tra Umbria e Marche: da qui si sarebbe poi diffusa nelle regioni vicine. Anche sulle origini del nome ci sono diverse versioni: molti pensano che “cicerchiata” sia un termine medievale che rimanda alla cicerchia, antico legume molto diffuso in Africa, Asia e alcune regioni del centro Italia. Significherebbe quindi “mucchio di cicerchie”.

Si impastano uova, burro ed il mistrà Varnelli o di altra marca, si formano dei serpentelli che vengono tagliati a rocchetti piccoli che una volta fritti diventano delle palline irregolari. Si friggono e si rivestono di miele profumato all’arancia.

Mia madre non usava la bilancia né per questa ricetta, né per molte altre preparazioni. Le servivano un cucchiaio, ed un occhio oltre le mani che sapientemente capivano la giusta dose, come per la cicerchiata per la quale bisognava usare il numero 4.

4 uova di galline felici, allora lo erano tutte, 4 cucchiai di zucchero, 4 cucchiai di mistrà Varnelli, 2 cucchiai di olio extravergine di oliva, un acino di lievito di birra, facoltativo questo, ma ve lo consiglio, 4 cucchiai di mandorle pelate, 4 cucchiai di miele, 4 cucchiai di zucchero, olio di semi di arachidi o strutto. Per fare la cicerchiata, lei impastava la farina tanta quanta ne serviva a lavorare le uova con la forchetta, univa lo zucchero, il granello di lievito, (questo era un suo segreto), mescolava per amalgamare, solo allora univa il mistrà Varnelli, prima no perché avrebbe bruciato le uova, l’olio e la buccia di limone. L’impasto doveva essere morbido da stendere con il mattarello, o con i polpastrelli, tagliava tanti serpentelli, li ritagliava a piccoli cubetti che tuffava nell’olio caldo o nello strutto. Nel frattempo aveva tostato le mandorle, le tagliava, nella padella metteva il miele, lo zucchero, e tre cucchiai di mistrà Varnelli, lasciava sciogliere lentamente mescolandoci i cubetti fritti, le mandorle e con un cucchiaio lasciava unire il tutto. Versava il composto sopra uno stampo unto dandogli la forma che le piaceva e con le mani unte e due cucchiai per non scottarsi, compattava bene. Una volta fredda la tagliava e la serviva ai suoi piccoli.

Buon cammino di carnevale!

Allora, se non vi fidate del numero 4, vi lasciamo un’altra ricetta con anche il cacao e gli ingredienti pesati.

Ingredienti

500 grammi di farina 00

3 uova di galline felici

50 grammi di burro

Un bicchierino di mistrà Varnelli

150 grammi di zucchero

Buccia di arancia o di limone

Olio per ungere il piano di lavoro

O un cavarè (un vassoio)

Olio di arachidi o strutto per friggere

Per condire la cicerchiata

200 grammi di miele

150 grammi di zucchero

10 grammi di cacao amaro

Il succo di limone

Buccia di limone o di arancia

Preparazione

Impastiamo la farina con le uova, il burro, la buccia di limone o di arancia, una volta amalgamato tutto, uniamo il mistrà Varnelli o un altro liquore. Finiamo di impastare fino ad ottenere un impasto morbido. Formiamo con la pasta, dei serpentelli sottili, li tagliamo a rocchetti piccoli, come delle palline irregolari, le friggiamo nell’olio di arachidi o nello strutto caldo. Li scoliamo e li lasciamo a perdere l’unto sopra la carta paglia.

In una pentola sciogliamo il miele con lo zucchero, uniamo il cacao setacciato, la buccia di limone o di arancia il succo di limone: mescoliamo con un cucchiaio di legno, caliamoci le palline fritte, mescolando per caramellare il tutto. Versiamo il composto sopra il piano unto, compattiamo con l’aiuto di due mezzi limoni e formiamo una piramide o un salame. Lasciamo raffreddare e tagliamola in pezzi. Noi abbiamo fatto la cicerchiata mini porzione mettendola in una coppetta foderata di carta forno e legata con un fiocchetto rosso. La cicerchiatacup!

Buona vita, buona cicerchjata ❤️

Marmellata e gelatina di cocomero all’anice stellato e mistrà Varnelli

Questa è la mia ricetta per preparare una buonissima e solare marmellata di cocomero dal colore rosso brillante e con un sapore particolare dato dall’ anice stellato che potete sostituire con un’altra spezia. Ci stanno bene quelle del vin brûlé, cannella, chiodi di garofano, macis, anici semplici e noce moscata. Queste spezie servono per rendere meno stucchevole il sapore dolciastro del cocomero.

Dalle nostre parti marchigiane terrà del liquore Varnelli, nelle caldissime serate d’estate al canto delle cicale, la serata finisce molto spesso con fette di cocomero servito con un goccio di liquore Varnelli. Nella marmellata ci sta proprio bene e la renderà aromatica anche senza nessuna spezia. A voi la scelta.

Questo è il mio modo di farla.

Ingredienti

1 kl di cocomero

750 grammi di zucchero ma possiamo metterne mezzo

Alcune stelle di anice stellato o vaniglia aperta o spezie miste. Liquore Varnelli o simile

Il succo di limone

Preparazione

Puliamo il cocomero dalla buccia, dai semini, se vogliamo possiamo lasciarne qualcuno perché oltre ad ottenere un tocco di croccantezza, dicono gli esperti nutrizionisti che facciano bene e togliamo i filamenti. Tagliamo la polpa a dadini, versiamola dentro uno scolino e lasciamo riposare per un’ora per far perdere l’acqua di vegetazione. Pesiamo la frutta, uniamo lo zucchero nella percentuale di 750 grammi per un chilo, possiamo fare qualcosa di meno, ma io l’ho trovata ottima con questa quantità, versiamo tutto nella pentola e mettiamo a cuocere sul gas dolcemente. Dopo un quarto d’ora uniamo il succo di limone e l’anice stellato, la vaniglia o le altre spezie. Mescoliamo spesso e proseguiamo la cottura sempre possibilmente con la piastra fra la fiamma e la pentola, se non l’abbiamo, mescoliamo spesso per non farla attaccare. Schiumiamo se c’è bisogno. Facciamo la prova del piattino, mettendo un cucchiaino di marmellata sopra che non deve scivolare. Versiamo la marmellata nei vasetti sterilizzati a microonde o al forno, bastano 10 minuti, prima di chiudere con i loro coperchi, uniamo sopra la marmellata, un goccio di Varnelli o di altro liquore ai semi di anice, tipo la Sambuca.

Posiamo fare la seconda sterilizzazione per stare più tranquilli, ma io dico che non serve. Io l’ho ritrovata bella e buona dopo molti anni senza averla fatta sterilizzare. Però fate come vi sentite.

Per la gelatina

Ingredienti

Un kl di cocomero

750 grammi di zucchero

Il succo di limone

Un cucchiaino di agar agar

Un bicchierino di Varnelli

Preparazione

Tagliamo la polpa a dadini e mettiamola a cuocere con il succo di limone, mescolando fino ad ottenere una purea. Versiamola in un tovagliolo a trama larga, lasciando cadere il succo in una ciotola. Strizziamo bene per far uscire tutto senza sprecare niente. Lo pesiamo ed uniamo lo zucchero nella misura di 750/ grammi per un kl. Possiamo anche metterne di meno. Mettiamo a cuocere unendo subito il cucchiaino di addensante, l’agar agar, mescoliamo spesso e portiamo a bollore a fuoco dolce. Dobbiamo avere la temperatura a 85 gradi che possiamo misurare con un termometro da cucina. Se non l’avessimo, appena bolle spegniamo e lasciamo raffreddare per una giornata. Solo allora, possiamo controllare la consistenza della gelatina. Se la troviamo giusta la riscaldiamo e la invasiamo nei vasetti sterilizzati unendo sopra un goccio di Varnelli. Se non abbiamo raggiunto la giusta consistenza, mettiamo un mezzo cucchiaino di agar agar riportando al bollore. Lasciamo sempre raffreddare prima di invasare solo così avremo capito la giusta consistenza della gelatina e poi invasiamo.

Questa non è il dolce siciliano chiamato gelo di cocomero che si mangia col cucchiaino, ma una gelatina che si usa come una qualsiasi di altra frutta, cioè da spalmare per ricoprire una torta, o per mescolare a creme di formaggio tipo una cheesecake o servita con i formaggi.

Vi racconto ora cosa faccio io con la purea del cocomero avanzata per fare la gelatina. Non la butto via, la peso e la verso in un barattolo insieme allo zucchero che deve essere metà del peso della purea unisco metà di alcol a 90 gradi e chiudo. Lascio riposare per un po’ di tempo e poi filtro. In questo modo ho ottenuto un liquore, il cocomerello.

Li caciù co la faétta

Calcioni dolci di carnevale ripieni di crema di fave secche addolcite con zucchero, buccia di limone e mistrà.

Li ho già pubblicati diverse volte, ma non è male farlo ancora dato che è un dolce popolare e tradizionale del periodo carnevalesco.

Qui trovate la ricetta https://farinaefiore.com/2019/03/04/li-caciu-co-la-faetta-2/

Nel blog ci sono le varianti con ripieno diverso!

Buon carnevale nell’attesa di un tempo migliore!

Buona vita, buoni caciù co la faétta ❤️

Castagnole

Cari signori e signore, annuncio l’inizio del carnevale!

Pranzo, riposo e voglia di castagnole. Non ci vuole molto tempo, si mescolano uova stavolta erano di galline felici, beate loro, farina, olio, un “acino”di zucchero come dicevano le nostre mamme, lievito ed il nostro mistrà Varnelli ed eccole tuffate in olio profondo le castagnole più buone del mondo! Sono buonissime, molto simili agli scroccafusi per i quali ci vogliono tempo, pazienza e un pizzico di mistero! Perché per farli c’è un rito particolare! Parola di Peppa!

#castagnole

Peppa era la “serva”, così si chiamava la collaboratrice domestica fino agli anni settanta più o meno, di casa di mio marito. Era una donna di campagna, forte, grezza, ignorante nei modi e di poche parole. Quelle poche erano per rispondere ai padroni di casa.

Sì sor Carlo, sì signòra!

Se non le stava bene qualcosa, non se ne preoccupava più di tanto. Girava i “tacchi” e si ritirava in cucina.

Lei era la detentrice della ricetta degli “scroccafusi”dolci di carnevale facili nella ricetta ma difficili nella seconda realizzazione quando devono essere fritti.

Noi li prepariamo cercando di farli somigliare a quelli di Peppa, ma quel di più di misterioso non ce l’hanno.

Se volete provare a farli qui trovate due ricette.

https://farinaefiore.com/2019/02/04/li-scroccafusi-co-la-cartina-de-lu-farmacista-2/

Ora però vi racconto la ricetta delle castagnole facili e buonissime.

Mettiamoci a lavoro e impastiamo a mano o con la planetaria 250 grammi di farina 0 e 250 grammi di farina forte tipo w 350 o la Manitoba, con quattro uova, 30 grammi di zucchero, due cucchiai di olio di girasole, la buccia di limone, una bustina di lievito per dolci ed il latte tanto quanto ne serve, io ne ho messo 190 grammi, per ottenere un impasto morbido da lavorare poi con due cucchiai nel momento quando caleremo le castagnole nell’olio bollente e profondo. Lavoriamo bene e alla fine aggiungiamo un goccio di mistrà tipo Varnelli o il rum o un altro liquore all’anice.

Mettiamo nella padella l’olio di arachidi o lo strutto, lasciamo scaldare per bene e friggiamo le castagnole facendo cadere il composto con due cucchiai, dev’essere una pallina più grande di una noce. Friggiamo la castagnole poche per volta a fuoco lento girandole spesso. Devono essere dorate. Le scoliamo e le lasciamo asciugare sopra la carta paglia.

Spruzziamo sopra l’alchermes e spolveriamo di zucchero a velo.

Questa è una ricetta del nostro territorio maceratese dove si usa mettere il mistrà il liquore all’anice Varnelli noto in tutto il mondo. Un tempo si preparava nelle case di campagna quando il vino assumeva cattivi sapori e veniva effettuata la distillazione aggiungendo i semi di anici.

Buona vita, buone castagnole ❤️

L’estate de San Martì poco più de tre dì

Li caciù co la faétta non possono mancare in questo giorno di festa del nostro patrono s. Martino.

Sono dei dolci semplici della cucina antica tradizione popolare maceratese e dintorni, fatti con la sfoglia senza uova e riempiti di purea di fave secche addolcite da zucchero, buccia di limone e mistrà il liquore a base di semi di anici che una volta veniva fatto in casa. Ora il più famoso è il mistrà Varnelli.

I calcioni vengono fritti in olio ma un tempo si usava lo strutto di maiale.

La ricetta la trovate sempre qui

https://farinaefiore.com/2019/03/04/li-caciu-co-la-faetta-

Le sfrappe marchigiane

Sono, le chiacchiere, i cenci, i crostoli, le bugie e per noi marchigiani sempre stravaganti nell’uso delle parole in dialetto a volte impronunciabili sono “le sfrappe”! Dolci di carnevale friabili fatti di pochi e poveri ingredienti.

C’è chi aggiunge il Marsala, chi il liquore all’arancia, noi invece un liquore molto noto e apprezzato nella nostra regione e non solo, il famoso Varnelli. Se piacciono anche i semi di anice.

Avevo letto da qualche parte che per ottenere un sfoglia sottile e nello stesso tempo croccante bisogna usare una farina di forza come la Manitoba perché rende il fritto asciutto a causa del glutine che sviluppandosi non lo farà assorbire. Non potevo non provare ad usarla per le sfrappe marchigiane ed ho avuto veramente un ottimo risultato!

Insieme alla ricetta delle sfrappe vi metto una costumanza marchigiana di detti ed usi al tempo di carnevale!

È un po’ difficile leggere e capire le parole in dialetto petriolese, però a senso vi faranno ridere!

Le “sfrappe” e “li scroccafusi”!

Dolci poveri di carnevale che venivano offerti al veglione che si teneva nel paese, nel teatro “de lu comune”l’ultimo sabato prima di carnevale!

“Le fandellette”, caruccette è più “gindili “, si dovevano presentare a “lu vejó de le cecare”, rigorosamente in abito da sera e “li jóanotti”, in abito scuro!

Questo è il manifesto che veniva appeso per le vie del paese e sulle vetrine “delle vuttiche “.

Lu vejó’ de le cecare

Jende tutte de ‘sto munno per godé’ finende ‘nfunno, Pitrió’ ve’’mmita annare ar Vejó’ de le cecare.

Valli, sôni, fiuri, candì, scroccafusi vôni e tandi,

vallirì tutti galanti e mijiare de monelle magruline e cicciutelle velle come le papelle….

Tutto questo ve vo’ dare lu vejó’de le Cecare!

Il cartoncino di invito alle signorine del paese suonava così!

Fandelletta caruccetta,

più gindile de ‘n-gnardile,

Pitriolu ve ringrazia se con tanta vona grazia venerete ‘mbó’ a sognare ar Vêjó’ de le Cecare.

Ffocherete tra mattate de’lligria e de risate, porbio comme fa d’istate le Cecare ‘nnammorate!

Ricetta e preparazione

Lavoriamo 250 gr di farina forte tipo Manitoba già setacciata insieme a due uova, mescolando uniamo 30 gr di zucchero e 30 gr di burro fuso e tiepido, amalgamiamo bene con le mani e solo adesso uniamo 50 gr. di liquore all’anice tipo mistrà Varnelli o all’arancia o Marsala, impastiamo fino ad ottenere una massa morbida e setosa, se risultasse dura aggiungiamo un po’ di acqua.

Formiamo una palla, lasciamo che riposi per un’ora coperta da una tovaglietta.

Riprendiamo la pasta e la stendiamo con la macchina della pasta con la seconda tacca. La tagliamo con la rotella a rombi o a strisce e friggiamo in olio di girasole alto oleico o nello strutto. Lasciamo cadere sopra un filo di alchermes e spolveriamo di zucchero!

Le sfrappe sono pronte, croccanti e come non mai!

Buona vita, buone sfrappe de carnuá!

A presto ❤️

Li scroccafusi co’ la cartina de’ lu farmacista

Questa è la vera ricetta originale de “li scroccafusi co’ la cartina de’ lu farmacista!

La nonna quando voleva fare questi dolci popolari carnevaleschi, a sua nipote senza uno straccio di esperienza culinaria le diceva: “cocca, ma come fai a piglià maritu che non sí capace manco de’ cocé du oé? Figuramoce se poli sapé fa’ li scroccafusi!!”

Allora forse impietosita le diceva: “piglia l’oé, lo zucchero, la farina, ló mistrà, e vanne da lu farmacista e glie dici: damme la cartina pe’ fa’ li scroccafusi!”

“Adesso cocca, mettete la pannella, apri la mattera, butta la farina sopra la spianatóra, mittece per ogni oú, un cucchiaru de zucchero, unu de olio, comincia ad imbastà, piano e mischia co’ la forchetta e mettece un cucchiaru pé ogni oú, de’ mistrà quello de’ chiaetta. ‘Mbasta per be’ e quanno la pasta adé né moscia né dura è pronta pe’ fà li gnocchi gróssi più de’ ‘na noce. Oh cocca, se te si stufata solo a sentimme, lassa fa’!

Ma se te ne a va, adesso riá lo véllo! Quanno si fatto tutti li gnocchi, li fai cocé nell’acqua salata, poco sale cocca, e quanno vóglié li mitti a cocé, ce volé un pó tanto, li devi fá cocé piano, piano perché rentro non devé rmané crudi!

Te si stufata cocca? Lassa perdé che non è da te jirannolona!

Adesso però te finisco a dí come devi fá se non te sí stufata!

Piglia la padella de’ ferro nera, mittece tanto strutto, ppicciá lu fornellu, fallo scioglié per bè, e piano piano mittecé due o tre scroccafusi, póchi cocca, se nó li bbrusci, girali co’ la paletta, e falli cocé, cé vóle tanto cocca!

Oh, ma devi stá co’ l’ócchi rraperti perché cé vóle pócó per bbruscialli! Me’ ‘ndinni ?

Vásta cocca! Cé vó più a dilló che a fálló!”

Dialogo campagnolo in dialetto maceratese fra nonna e nipote!

Chissà se qualcuno di voi avrà capito ciò che si sono dette nonna e nipote!

Ardua impresa!

E la ricetta vi interessa?

Sentitemi, questi sono dolci davvero speciali, la preparazione è lunga, però ne vale la pena! A volte, si rimane pure deluso perché non sempre vengono bene! Colpo di fortuna, la nonna quando li faceva era scaramantica! Vi racconto una cosa che forse vi farà ridere!

La nonna da”jóene”, non si metteva a fare “li scroccafusi”,se aveva “lo marchese”! Era impura!

Tutti pronti?

Ingredienti

440 gr di farina 00

5 uova

5 cucchiai di zucchero

5 cucchiai di olio di girasole

5 cucchiai di mistrà Varnelli

La cartina del farmacista è: un cucchiaino di cremore di tartaro più mezzo cucchiaino di bicarbonato

Buccia di limone

Un litro più o meno di olio di arachidi o strutto

Preparazione

La preparazione è facile

Mettiamo nella ciotola della planetaria o possiamo farla a mano sopra la spianatoia, la farina la quantità è giusta giusta, le uova, lo zucchero, il bicarbonato e il cremore di tartaro, l’olio e cominciamo ad impastare appena tutti gli ingredienti si sono amalgamati, non mettiamolo prima perché l’alcol potrebbe cuocere le uova, uniamo il mistrà. Continuiamo ad impastare fino a quando la pasta diventa bella, lucida e morbida! Lasciamo riposare coperta da una ciotola per un’ora.

Mettiamo la pasta sopra la spianatoia facciamo dei grossi rotoli e tagliamoli come gli gnocchi però grandi più di una noce!

Nella pentola che sta bollendo con un pizzico di sale, caliamo tre gnocchi alla volta, mescolando frequentemente con la schiumarola. Devono cuocere per una decina di minuti perché altrimenti risulterebbero crudi dentro.

Li scoliamo con lo scola pasta, li facciamo asciugare sopra ad un canovaccio e li copriremo con un altro. Ora facciamo tre tagli sulla superficie che serviranno a farli aprire in padella quando li friggiamo.

Ora mettiamo la padella dei fritti sul fuoco con un litro più o meno di olio di arachidi, appena è bello caldo uniamo tre scroccafusi non di più, facciamo riprendere il calore, e abbassiamo la temperatura perché devono cuocere piano piano fino l’interno della pasta.

Li tiriamo su con la schiumarola e li mettiamo ad asciugare sopra la carta paglia.

Appoggiamoli sopra un bel vassoio, li spruzziamo di alchermes e li spolveriamo di zucchero oppure sciogliamo del miele al quale uniremo l’alchermes e coliamolo sopra gli scroccafusi.

Buoni, cari amici!

Però deve assisterci la fortuna!!!❤️

Buona vita, buoni scroccafusi della nonna!

Le fave dei morti

È tradizione antica marchigiana preparare per la festa dei morti, le fave secche in una specie di zuppa appetitosa e stuzzicante, “lu cuticusu”.

Ma è anche tradizione mangiare dei dolcetti come le fave dei morti a ricordo dei propri cari scomparsi. Sono preparati con le mandorle, la buccia di arancia, il mistrà o l’amaretto!

Per prepararli basta impastare 200 gr di mandorle con qualcuna amara macinate insieme a 200 di zucchero, buccia di arancia o limone, unire 125 di farina, 2 uova, un bicchierino di mistrà o anisetta o amaretto, vaniglia ed una noce di burro. Tagliare a pezzetti e formare le fave dei morti. Cuocere per 10/12 minuti a 180 gr in forno ventilato. Le fave dei morti devono restare chiare quindi non devono cuocere molto. Più restano morbide, più sono buone. In alcune parti della nostra regione, si usa mettere le fave dei morti dentro a delle calze di lana e lasciarle vicino al letto dei bambini durante il sonno. La mattina, si racconterà che quei dolci sono stati donati dai loro cari parenti defunti che quella notte avevano visitato la casa.

Buona festa di tutti i Santi❤️

Li càciú co’ la faetta

C’era una volta via della Pace con le sue case alte e strette a più piani. Una stanza o due, una sopra l’altra, sotto la cucina, con la saletta adiacente, o un piccolo laboratorio artigianale, un piano più su, la camera da letto matrimoniale ed una più piccola per i figli o un piccolo bagno senza vasca né doccia, l’essenziale per i propri bisogni, ancora un piano più su, un’altra cameretta o la soffitta.

In via della Pace, c’era pure l’asilo con la bellissima stufa rossa di terracotta, gestito dalle monache, suor Giuditta e suor Cornelia.

In via della Pace, il viale alberato di tigli profumati, regalava ombra nelle calde ed assolate giornate estive.

In via della Pace, il primo ed il due di novembre, si spandeva l’odore dei “caciù co la faétta”, che “Dilina di Luchètta”, la lattarola di quella zona popolosa, preparava con le sue preziose mani, nella sua cucina un piano sopra la sua piccola bottega, dove c’era il profumo di latte appena munto.

La sua ricetta era segreta, ma tutte le massaie li sapevano fare i “caciù co la faétta”. Ognuna con il suo segreto e la sua passione regalava dolcezza ed amore ai propri cari.

Noi non la conosciamo la ricetta di “Dilina di Luchètta”, ma abbiamo la nostra che invece è alla portata di tutti.

Noi la raccontiamo così.

Una sfoglia sottilissima di farina, olio e vino bianco ed un pizzico di sale o con un uovo e due albumi, mezzo bicchiere di olio, sale e farina quanto basta per ottenere un impasto morbido da far riposare, un ripieno di fave secche ammollate, cotte e addolcite, profumate di buccia di limone ed di mistrà magari fatto in casa. Così preparati vengono fritti e spolverati di zucchero semolato.

I ripieni possono essere diversi, di patate con cacao, cannella, zucchero, limone e mistrà, di ceci, zucchero, uvette, noci e cacao. Tutto profumato ed ammorbidito dal vino cotto o rum.

Ci vogliono pazienza e tempo, per la preparazione dei “caciù co la faétta”, ma vale la pena conoscere e gustare un dolce tanto buono quanto antico.

Noi ci proviamo a non far perdere nell’oblio, sapori, profumi e tradizioni del nostro piccolo paese. Ci serviranno per continuare a vivere con più serenità.

Ora più che mai.

Prepariamo tutti gli ingredienti che ci vogliono.

Per il ripieno

Mezzo chilo di fave secche messe in ammollo per una notte e lessate anche in pentola a pressione, se decorticate si evita l’ammollo

Alcune foglie di alloro

Zucchero a nostro gusto

Buccia di limone o cannella o cacao amaro

Mistrà o rum qb

Sale

Per la sfoglia

Mezzo chilo di farina 00

Sale un pizzico

Tre cucchiai di zucchero

Tre cucchiai di olio extravergine d’oliva

Una spruzzata di mistrà o rum

Vino bianco tre cucchiai

Acqua quanto basta per ottenere un impasto tipo le tagliatelle

Seconda ricetta per la sfoglia con le uova

Mezzo chilo di farina 00

Un uovo e due a albumi

oppure due uova intere ed un albume

Tre cucchiai di olio extravergine d’oliva

Tre cucchiai di vino bianco

Una spruzzata di mistrà o rum

Sale qb

Acqua quanto basta per ottenere un impasto tipo le tagliatelle

Olio di arachidi per friggere

Variante con le patate o i ceci, stesse dosi delle fave secche

Ripieno delle patate uguale a quello delle fave, per i ceci che passeremo al passaverdura, non frullati ad immersione, zucchero, uvette, noci e cacao amaro.

Preparazione

Passiamo al passaverdura le fave lessate con foglie di alloro e un pizzico di sale, non frulliamo ad immersione perché ci troveremmo una purea collosa, uniamo gli ingredienti mescoliamo bene per amalgamare.

Impastiamo la farina e tutti gli ingredienti, l’impasto deve essere come quello delle tagliatelle. Lasciamo riposare per un’ora. Tiriamo la sfoglia sottile con la macchinetta e tagliamo i calcioni, mettiamo al centro un po’ del composto, tagliamo con la rotella dentellata e chiudiamo a mezza luna. Friggiamo in olio profondo per pochissimi minuti. Mettiamoli a perdere l’olio sopra carta assorbente, spolveriamo di zucchero e gustiamoli con un buon vino cotto maceratese.

Buona vita e buoni caciú co’ la faetta. ❤️

Il lonzino di fichi secchi dolce tradizionale maceratese

Ricetta!!!
C’è un detto popolare che dice: la nebbia fa maturare i fichi:ed un altro ” a settembre l’ua è fatta e li fichi pénne”, ( a settembre l’uva e i fichi maturano insieme). Questo è il periodo dove si raccolgono i fichi verdi cori e i rosso nerastri…Fichi del diavolo.

“Li fichi de Recanati”, erano i migliori e gli abitanti dei centri vicini sfottevano i recanatesi, con il detto” se non fosse per i frutti dei fichi, i recanatesi sarebbero tutti distrutti”

Torniamo al lonzino.

I fichi devono essere essiccati al sole, infilati con uno spago. Ora noi…..dell’era moderna, usiamo l’essiccatore o il forno tradizionale a bassa temperatura o quello a microonde….. non mi mandate a quel paese…..sono ancora qui dopo tanto tempo che lo uso.

Ci vogliono fichi secchi, foglie di fico lavate ed asciugate, nocciole, pinoli, mandorle, buccia di limone e di arancia e se piacciono, semi di anice, il tutto macinato possibilmente con un tritacarne oppure ben tagliuzzato a modo di pasta di salame. Si impastano con la sapa o con mistrà o marsala o vino cotto. Si Amalgama bene il composto e si formano dei salami che si avvolgeranno nella pellicola trasparente o nelle foglie di fico ben lavate. Si lasciano riposare ben stretti con carta forno e legati con uno spago da cucina.

A Natale saranno pronti.

Se saranno stati avvolti nelle foglie, saranno più belli e profumati.

Si servono per antipasto, con formaggi e rucola ed un goccio di sapa o di aceto balsamico di Modena. Se a fine pasto, accompagnati con i tradizionali dolci natalizi e frutta secca.

Buona vita, buon salame di fichi ❤️Buon Natale.

Un’altra variante, aggiungere il cioccolato fondente